Tuo nipote esplode di rabbia per un rifiuto e tu non sai come aiutarlo: la scienza rivela cosa fare

I giovani adulti di oggi sembrano crollare di fronte alla prima difficoltà seria: un colloquio di lavoro andato male, un progetto bocciato, una relazione finita. La reazione può essere rabbia esplosiva, rinuncia totale o fuga verso distrazioni compulsive. Quella che i nonni osservano non è semplicemente debolezza caratteriale, ma il risultato di un profondo cambiamento educativo e sociale che ha attraversato tre generazioni. I ragazzi cresciuti nell’era della gratificazione immediata, della protezione genitoriale aumentata e di aspettative elevate alimentate dai social media si trovano spesso meno allenati a quella che gli psicologi chiamano tolleranza alla frustrazione: la capacità di sopportare il disagio emotivo senza crollare o reagire in modo disfunzionale.

Le radici invisibili di una fragilità generazionale

La psicologa Carol Dweck della Stanford University ha documentato come le credenze sul talento e sull’intelligenza influenzino profondamente la resilienza di bambini e adolescenti. Chi sviluppa una mentalità statica, centrata sul talento innato, tende a vivere l’insuccesso come prova di insufficienza personale, mentre chi sviluppa una mentalità di crescita interpreta l’errore come occasione di apprendimento. Quando un ventenne riceve il primo rifiuto lavorativo dopo anni di riconoscimenti scolastici, il suo sistema di credenze può vacillare: “Se valgo, perché vengo rifiutato?”. La risposta emotiva può diventare rabbia verso l’esterno o autodenigrazione paralizzante.

I nonni, cresciuti in un’epoca in cui l’insuccesso era più frequentemente normalizzato come parte del percorso di vita, faticano a comprendere questa reazione. Ma la differenza fondamentale non sta solo nel carattere, bensì nell’allenamento emotivo ricevuto durante l’infanzia. Le neuroscienze dello sviluppo mostrano che la corteccia prefrontale, cruciale per la regolazione emotiva e il controllo degli impulsi, continua a maturare fino alla prima età adulta e viene modellata dall’esperienza, comprese le occasioni ripetute di gestire frustrazione e stress in modo supportato. Daniel Siegel e Tina Payne Bryson descrivono come esperienze ripetute di co-regolazione emotiva contribuiscano all’integrazione tra aree corticali e limbiche.

Il paradosso della genitorialità protettiva

Molti dei genitori di questi giovani adulti hanno adottato inconsapevolmente forme di genitorialità molto protettive. In letteratura recente si parla di genitorialità iperprotettiva, associata a minore autonomia e maggiore vulnerabilità emotiva nei figli. Bruno Bettelheim, nei suoi testi, descrive forme di amore genitoriale eccessivamente controllante e intrusivo che possono ostacolare lo sviluppo dell’autonomia del bambino.

Quando ogni piccola difficoltà viene rimossa dal percorso del bambino, ogni delusione sistematicamente ammortizzata e ogni conflitto risolto dall’intervento adulto, il bambino ha meno occasioni di sperimentare che può tollerare emozioni spiacevoli e trovare soluzioni autonome. Studi longitudinali mostrano che stili genitoriali iperprotettivi si associano, in età giovanile, a maggiore ansia, minore autoefficacia e minore capacità di fronteggiare lo stress.

Il risultato? Giovani che a venticinque o trent’anni possono sperimentare per la prima volta rifiuti significativi, fallimenti non mediati e responsabilità dirette delle proprie scelte. Quando mancano esperienze pregresse di gestione di difficoltà crescenti, il sistema nervoso può reagire con risposte di forte attivazione allo stress, simili a una minaccia rilevante, perché non sono state sviluppate strategie consolidate di regolazione emotiva.

Cosa possono fare i nonni: strategie concrete oltre il giudizio

Il ruolo dei nonni in questo scenario non è sostituirsi ai genitori né criticare le scelte educative passate, ma offrire quella che la teoria dell’attaccamento definisce una base sicura ulteriore, cioè una figura di riferimento stabile da cui il giovane può esplorare e a cui può tornare nei momenti di difficoltà. John Bowlby descrive i caregiver primari, ma la letteratura successiva ha esteso il concetto all’idea di più figure di attaccamento nel corso della vita.

Condividere fallimenti, non solo successi

Invece di raccontare ai nipoti solo le vittorie della propria generazione, i nonni possono diventare narratori anche di insuccessi superati. La ricerca sulla narrazione autobiografica mostra che condividere in modo autentico anche episodi di vulnerabilità favorisce connessione, normalizza emozioni difficili e offre modelli di gestione delle difficoltà. Non servono storie moralistiche con una morale finale, ma racconti sinceri di come ci si sente quando un progetto fallisce, quando una relazione finisce, quando un lavoro non arriva, e di come si è affrontata emotivamente quella fase.

Validare senza salvare

Quando un nipote esprime rabbia per un colloquio andato male, la tentazione è dire “non importa, ne troverai altri” oppure “reagisci, datti da fare”. Entrambe le risposte rischiano di minimizzare l’emozione. Nella Dialectical Behavior Therapy, sviluppata da Marsha Linehan, la validazione è considerata un elemento centrale per la regolazione emotiva: riconoscere e legittimare l’emozione dell’altro riduce l’intensità emotiva e favorisce la capacità di riflettere su come agire. Una risposta in linea con questo approccio potrebbe essere: “Capisco che ti senti furioso e deluso. Queste emozioni sono legittime. Cosa pensi ti aiuterebbe in questo momento?”. Validare l’emozione senza offrire subito soluzioni sviluppa gradualmente la capacità di autoregolazione.

Proporre micro-frustrazioni gestibili

I nonni possono creare occasioni controllate di frustrazione: un progetto manuale complesso da completare insieme, una ricetta difficile, un gioco strategico in cui si perde spesso prima di migliorare. La letteratura sullo sviluppo della resilienza sottolinea l’importanza delle sfide moderate, non travolgenti, affrontate in un contesto di relazione di supporto. L’importante è restare presenti durante l’esperienza emotiva, modellando a voce la propria regolazione: “Questo pezzo non entra, mi sento frustrato. Faccio un respiro e riprovo da un’altra angolazione.” Questo tipo di co-regolazione è coerente con gli interventi educativi supportati empiricamente.

Riconoscere quando serve aiuto professionale

Esiste una differenza tra bassa tolleranza alla frustrazione e disturbi più profondi come la disregolazione emotiva marcata o il disturbo esplosivo intermittente, che il manuale diagnostico definisce come episodi ricorrenti di perdita di controllo aggressivo sproporzionato rispetto ai fattori scatenanti. Quando la rabbia diventa violenza, quando la rinuncia si trasforma in ritiro sociale prolungato, o quando la fuga implica comportamenti autolesivi o dipendenze, gli indicatori suggeriscono la necessità di una valutazione specialistica.

Quale frustrazione ti manda più in crisi emotiva?
Colloquio di lavoro fallito
Progetto bocciato o criticato
Fine di una relazione importante
Rifiuto sociale o esclusione
Obiettivo mancato nonostante impegno

In questi casi, il ruolo dei nonni è incoraggiare gentilmente un percorso terapeutico, senza accusare né patologizzare. Lo psicoterapeuta Giovanni Liotti sottolinea l’importanza di un linguaggio esplorativo e non giudicante nella proposta di cura: ad esempio, far notare come certi episodi causino sofferenza e ipotizzare che parlare con uno specialista possa offrire strumenti per stare meglio.

Il valore insostituibile della pazienza transgenerazionale

La neuroscienza dello sviluppo mostra che il cervello mantiene una notevole plasticità anche in età adulta: esperienze ripetute, pratiche intenzionali e relazioni significative possono modificare circuiti neurali legati alla regolazione emotiva, all’attenzione e alle abitudini. Il lavoro divulgativo di Norman Doidge riassume numerose evidenze cliniche e sperimentali su questo tema.

Questo significa che un venticinquenne può ancora sviluppare resilienza, ma ciò richiede tempo, pratica ripetuta e relazioni sicure dove sperimentare gradualmente la frustrazione in modo tollerabile. Studi sulla resilienza in età adulta confermano il ruolo delle relazioni di supporto nel favorire cambiamenti positivi anche dopo periodi di vulnerabilità.

I nonni, spesso più liberi dalle pressioni educative quotidiane che gravano sui genitori, possono offrire questo spazio di sperimentazione emotiva senza giudizio. Non come salvatori o giudici, ma come testimoni pazienti di un processo di crescita che in molti casi è stato ritardato ma non reso impossibile. Ricerche su adulti giovani mostrano che la presenza di figure familiari stabili e non reattive è associata a una migliore regolazione emotiva e a minori sintomi depressivi e ansiosi. La loro presenza costante, non reattiva, diventa essa stessa una forma di protezione e supporto: un messaggio silenzioso che anche nei momenti difficili qualcuno resta, senza fuggire né aggredire, coerente con ciò che i modelli di attaccamento sicuro indicano come fattore di protezione lungo tutto l’arco di vita.

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